di Francesco Iacopino
Gela. Rocco Greco si è tolto la vita con un colpo di pistola alla tempia. È l’alba del 27 febbraio 2019. Aveva denunciato i suoi estortori, facendoli condannare. Per ritorsione fu accusato di avere rapporti con la mafia. Assolto dal Tribunale con formula piena, la Prefettura lo “interdice”. È l’Italia delle misure di prevenzione. Quel marchio di “interdetto” non lo sopporta, lo considera un’ipoteca negativa, un’infamia da cancellare dall’asse ereditario dei suoi figli. E lo fa nel modo più drammatico: “io devo andare perché voi siate liberi”. Un anno e mezzo dopo, la famiglia vincerà la battaglia giudiziaria. La sua impresa era “pulita”. E lo era anche lui.
Francesco sono trascorsi quasi cinque anni da quel tragico giorno. Nell’immediatezza dei fatti ha detto: “facciamo sì che vicende così non accadano più”. Cosa è cambiato?
Nulla. Il sistema continua amaramente ad essere inefficiente e cancerogeno. A distanza di anni, nessun imprenditore percepisce le interdittive come la mano tesa dello Stato, l’alleanza con il tessuto economico sano per combattere “insieme” la mafia. Al contrario, i provvedimenti prefettizi, “inflitti” sulla base del sospetto, mortificano chi fa impresa, specie al sud. E così, si è schiacciati, da un lato dall’arroganza della criminalità e, dall’altro, dalla burocrazia dello Stato.
È in atto la desertificazione dell’economia legale del meridione.
Da come si esprime, sembra che in materia di “prevenzione” l’Italia sia divisa in due.
È la realtà. Al sud la macchina delle interdittive alimenta la quotidiana “guerra dei poveri”. Nei territori economicamente depressi una burocrazia lenta e deresponsabilizzata finisce per “schiacciare” le aziende e disincentivare gli investimenti. Molti imprenditori, per sopravvivere, si trasferiscono al nord. Fare impresa oggi nel meridione è un miracolo.
All’esito dei processi, suo padre è stato riconosciuto innocente, mentre i suoi estortori sono stati definitivamente condannati. Lo Stato ha riparato all’errore?
Purtroppo no. Esiste un fondo di rotazione per le vittime di mafia e, sebbene il Tribunale abbia accolto la nostra richiesta, il Prefetto ci ha negato il risarcimento dovuto. Siamo al paradosso. Il Giudice lo dichiara vittima. Il Prefetto se ne infischia. Per superare l’empasse, dovremmo intentare un’altra causa. Siamo molto stanchi e delusi dalla solitudine e dal peso, insopportabile, che il sacrificio di mio padre, in fondo, possa non essere servito a nulla.
Dove trova la forza per andare avanti?
Nella compattezza della mia famiglia. L’eredità di mio padre. Nonostante il dolore lacerante, mia mamma Enza si è caricata da subito il peso di supplire alla mancanza paterna, moltiplicando i sacrifici e gli sforzi. I miei fratelli, Andrea e Paola, si sono rimboccati le maniche e sono diventati la ragione del mio impegno quotidiano. Osservo la loro dedizione, l’amore e la passione per il lavoro e rivedo i valori che ci ha trasmesso papà. Certo, non è facile. Mamma, ancora oggi, ogni 27 del mese si sveglia alle 4 del mattino. Precede di un’ora l’orario in cui mio padre, quel fatidico 27 febbraio, è uscito di casa per non farvi più rientro. Ma non molliamo.
Questo coraggio vi fa onore. Cosa si aspetta dal futuro.
Che il sistema cambi. Il 27 febbraio del 2019 abbiamo dovuto affrontare una nuova vita, che non ci siamo scelti. Abbiamo deciso di canalizzare tutta la nostra sofferenza in una battaglia di civiltà, perché il sacrificio di mio padre non risultasse vano. Se lo Stato vuole sconfiggere la mafia sul terreno dell’economia legale deve tendere la mano all’imprenditoria “pulita”, farla sentire sostenuta e protetta. Colpire solo le cellule malate che tentano di infettare quelle sane. Altrimenti il sistema della prevenzione antimafia, a dispetto delle buone intenzioni, continuerà a risolversi in un meccanismo infernale di distruzione di alternative di vita economica, sociale e civile al potere mafioso.