di Orlando Sapia –
La Corte Costituzionale ha accolto le questioni di legittimità rimesse dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia in ordine alla legittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario. Le questioni sono state sollevate dalle difese di Sebastiano Cannizzaro e Pietro Pavone, condannati entrambi all’ergastolo per delitti di mafia.
In attesa di conoscere la sentenza, una nota dell’ufficio stampa della Corte rende noto che è stata dichiarata “l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che ovvio il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo.”
La sentenza della Corte segue quella, di pochi giorni addietro, della Grande Camera della CEDU che ha reso definitiva la condanna dell’Italia, su ricorso di Marcello Viola, anch’esso ergastolano ostativo, per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Si tratta di due decisioni che, sebbene non completamente sovrapponibili, sono sicuramente tra loro collegate, riguardando il medesimo istituto giuridico, l’ergastolo c.d. ostativo.
La Corte Europea ha sostenuto, in maniera piuttosto diretta, che la pena dell’ergastolo scontata nel regime di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, ovverosia senza poter accedere ai benefici penitenziari ed in particolare alla liberazione condizionale, essendo una pena in concreto perpetua, realizza una violazione dell’art. 3 della Convenzione: “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
La Corte Costituzionale affronta la problematica non in maniera così frontale, dal momento che prende in considerazione l’illegittimità dell’istituto solo in riferimento alla parte in cui la norma “esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio.” (Ordinanza di rimessione, Cass. Sez. 1, n.57913/18). Ne consegue che non si dichiara l’illegittimità dell’istituto dell’ergastolo ostativo nel suo complesso.
Difatti, la pronuncia riguarda i soggetti condannati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui al 416 bis e non i soggetti appartenenti alla predetta organizzazione, da ciò discende che l’illegittimità non riguarda, allo stato, l’associato. Altro aspetto di rilievo è che la pronuncia concerne un particolare beneficio che è il permesso premio e non la pluralità dei benefici penitenziari, quali ad esempio, nel caso dell’ergastolano, il lavoro all’esterno, la semilibertà e la liberazione condizionale.
In ogni caso, la decisione della Corte Costituzionale è una pronuncia coraggiosa ed in linea con i principi costituzionali in materia di esecuzione penale e funzione della pena. Si elimina un automatismo di esclusione, nato in una logica emergenziale, ridando, così, potere di valutazione alla magistratura di sorveglianza. Difatti, è bene ricordare che i benefici penitenziari non sono mai concessi con facilità ed in modo automatico, ma passano attraverso il vaglio critico e severo della magistratura di sorveglianza, la cui valutazione è supportata dalle relazioni provenienti dal carcere, nonché sulle informazioni e pareri di varie autorità tra cui la Procura antimafia.
In sostanza, siamo ben distanti da quanto affermato da alcuni esponenti della politica nazionale e della magistratura, laddove si preannuncia che questa sentenza segnerà la fine della lotta alla mafia e aprirà le porte delle carceri ai mafiosi e ai terroristi liberi, così, di tornare a delinquere. Trattasi di un allarmismo di maniera, a cui oggi soprattutto la politica fa ricorso al fine di porre il tema sicurezza al centro dell’agenda nazionale, perché, in un paese in cui vi sono oltre cinque milioni di persone sotto la soglia della povertà, è in fondo più semplice e meno dispendioso implementare l’uso del diritto penale, ne è un esempio la recente riforma in materia di prescrizione, e varare i c.d. pacchetti sicurezza, piuttosto che investire nel welfare.
La speranza è che, anche sull’onda di queste sentenze, si torni a legiferare in materia penale ponendo come baricentro non la raccolta del consenso elettorale, ma i diritti delle persone.
(Pubblicato su Quotidiano del Sud, 26 ottobre 2019)